Continuano le interviste di VITE a personaggi simbolo del panorama italiano del cibo e del vino. Oggi siamo andati a Parma, presso l’enoteca Tabarro, dove Diego Sorba, oste provato e tormentato, continua a sorprendere gli ospiti grazie al suo modo geniale di intendere la convivialità.
“Due sono gli elementi che più mi stanno a cuore quando si parla di Tabarro: il primo è il senso di comunità che si respira quando si entra nella mia enoteca, dove anche la solitudine più triste trova conforto nel vociare confuso o nello sguardo di un vicino. Lo stare insieme e gli incontri che nascono, rappresentano quindi, il culmine dell’esperienza dell’osteria. Secondo, il vino, una bevanda evangelica ed ecumenica insostituibile e catalizzatore, se così possiamo dire, di tutte queste esperienze”.
Fino a 31 anni, Diego, si occupa di diverse cose: gioca a rugby, scrive, studia letteratura e viaggia. E sono proprio i viaggi a far nascere il lui quella curiosità per il vino, per l’uomo e per la natura dando così vita a Tabarro.
“La mia non è una cantina, ma piuttosto una biblioteca! Ogni bottiglia ha un autore, con un suo stile ed un suo genere: ognuna di esse porta con sé un messaggio. Sta a chi beve, poi, scovarlo. In alcuni casi può essere difficile poiché il messaggio risulta fuorviante, artificioso; in altri casi, risulta più semplice, più naturale appunto. Attenzione, però! Per fare vino (naturale) bisogna essere fedeli alla terra, non bisogna ingannarla o farle del male. Ricordiamoci che la natura non ha dogmi: essa muta ed il vino con lei. Più che i vini, quindi, dobbiamo guardare al naturale come ad un concetto più ampio, che abbraccia l’uomo ancor prima del vino. Se davvero la biodinamica riguarda un miglioramento della condizione dell’uomo, come diceva Steiner, è opportuno arrivarci da soli, non attraverso qualche imposizione di mercato. Nonostante non si possa dire che dagli anni ’80 (e dagli enologi in stile Rolland) di strada se ne sia fatta, non possiamo prescindere dalla necessità per ognuno di noi, contadino o vigneron che esso sia, di partire, per poi non tornare, nel tentativo di migliorarsi sempre.
In questo senso - se di senso stiamo parlando - personaggi come Pierre Charlot rispecchiano molto questo approccio, in vigna così come nella vita. La sua voglia di proseguire la tradizione di famiglia è un qualcosa di fondamentale nella terra. Parlando con Pierre, o assaggiando il suo Champagne, si evince il suo contatto con la natura, soprattutto nelle prime fasi della crescita, che gli sarà servito da stimolo alla creatività. Ecco, quindi, l’elemento del naturale che vien fuori.
Posso dire ora, dopo tante bevute, distratte e disinteressate, si fa per dire, che il vino è un mezzo e non un fine. Chi beve deve essere lasciato libero di non fare niente, se non bere, appunto. Poi, con un colpetto di qua ed un colpetto di la, bisogna rapirlo. Non servono gli esercizi di stile né tantomeno le lezioni piramidali di chi pensa che il vino sia un oggetto da misurare.
In conclusione, non possiamo permetterci di buttare ciò che di buono abbiamo fatto: essere un oste non è come essere uno chef, oggigiorno. Bisogna avere sete, in tutti i sensi, viaggiare, scoprire e chiacchierare con il mondo. Solo così potremo, forse, rientrare in un’ipotetica naturalità delle cose e continuare a sognare".
VITE PRODUZIONE RISERVATA
21.05.2016